Spesso si è pensato quanto sia difficile elaborare un lutto, molte volte può essere traumatico e complesso, a tal punto da essere considerata una categoria patologica alla quale non si può sfuggire essendo la destinazione finale di molte esperienze. 

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Come quella di  Annabella che tempo fa mi chiamò dicendomi che il medico le aveva consigliato di rivolgersi ad un professionista per parlare e superare quello che le era successo.

Quando diventa una difficoltà?

In questo caso il lutto diventa “il problema” e si erge a protagonista assoluto dell’intervento terapeutico, in un mondo dove sempre più si tende a trasformare tutto in malanno, pur di curare. Il discorso è stato anche ripreso da Alessandro Salvini (2007), il quale dice che di fronte alle difficoltà di comprendere le persone da parte delle discipline diagnostiche sono sorte le psicologie cliniche con finalità terapeutiche.

Se ci addentriamo in una prospettiva interazionista che pone in primo piano le interrelazioni di gruppi di persone, il lutto non coincide più con la morte ma, come ci mostra Le Bretton (2014) diventa molto interessante immergersi nello spazio di rituali, consuetudini e credenze che girano attorno ai diversi gruppi di persone in riferimento all’interruzione dell’attività fisiologica corporale.

Se il tutto quindi viene analizzato in un’ottica interazionista, il lutto non viene imposto nè impedito, si stabilisce che siano facce diverse della medesima medaglia.  Un esempio potrebbe essere quando in televisione le immagini zoomano su lacrime che scendono dagli occhi fino alle guance di chi è coinvolto in una tragedia, con il contemporaneo “non ti preoccupare” della gente che comunica in questo modo solamente quando succede un fatto di particolare gravità.

 Il centro di tutto quindi non sarà l’oggetto ma il soggetto inteso come la persona e il suo modo particolare di raccontare.

Tornando al racconto di Annabella, ad un certo punto mi sento dire: “…è stata una cosa brutta, ho pianto ma mi sento serena…”

Un intervento interazionista prosegue componendo con la persona un racconto diverso, una storia inedita ma molto utile, legittimando le difficoltà che ci si trova ad affrontare.

Capita la sua fase, Annabella dice: “…Fin dal terzo mese di gravidanza sapevamo che la bambina sarebbe dovuta morire nella mia pancia ma abbiamo voluto andare avanti lo stesso. Alla fine è nata, l’abbiamo chiamata Vittoria e ho vissuto con lei cinque giorni, i cinque giorni più belli della mia vita; sono contenta delle scelte che ho fatto.”

Spesso se ci chiede chi è il responsabile. A volte capita che durante un colloquio si resti a bocca spalancata davanti ad un racconto che difficilmente possiamo contenere all’interno dello stretto confine della parola LUTTO.

Annabella prosegue chiedendosi cosa fare. È in questo momento quando mi viene spontaneo chiedermi:  “rispetto a cosa?”

Ed è proprio in questo punto che si spalanca davanti a me “l’ignoto universo dell’Altro” e finalmente si può iniziare a lavorare per trovare le soluzioni adatte.

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