L’Istituto di Psicologia e Psicoterapia di Padova, leader nella formazione psicologica e psicoterapeutica attraverso corsi di specializzazione e master altamente professionalizzanti, ci offre un’interessantissima intervista rivolta al Prof. Alessandro Salvini, membro attivo dell’istituto e ordinario di Psicologia Clinica all’Università di Padova.

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Sentimenti di disperazione e dintorni – dialogo con Alessandro Salvini

Stecca:«A volte si incontrano persone che sembrano deluse, spente, annoiate, senza aspettative per il loro futuro, rinunciatarie della vita, ma gran parte di questa sofferenza rimane nascosta, senza trovare mai uno spazio in cui manifestarsi e  riconoscersi.»

Salvini: «Se si impara ad ascoltare veramente queste persone, si capirà che soffrono di qualcosa di diverso da una disforia o da uno stato depressivo. In loro affiora spesso una molteplice e soggettiva presenza di sentimenti di disperazione. Non parlo di un disturbo dell’umore, autocritico, pessimistico o catastrofico, ma di un qualcosa che scaturisce da una negativa consapevolezza esistenziale che, in una sola parola, rende il soggetto ‘‘disperato’’. Questa è la disperazione di chi si lascia vivere senza sperare in un destino diverso, utopicamente migliore. È la disperazione di chi crede di essere un sopravvissuto o di chi si sente un perdente nel conflitto incessante tra le aspirazioni, le attese e l’impossibilità di raggiungerle. Molto spesso questa consapevolezza porta anche alla rinuncia, al rifiuto e, quindi, a una forte depersonalizzazione.»

Mazzoni: «Quindi, è una sofferenza senza etichette, un problema della consapevolezza, in cui i sentimenti di disperazione, latenti o manifesti, presentano connotati fortemente soggettivi?»

Salvini: «Direi proprio di sì. I monaci cristiani d’Oriente denominavano i sentimenti di disperazione che li affliggevano tedium vitae e li attribuivano a dei demoni tentatori. Non era altro che la voce interiore di una frustrata ricerca spirituale, suscitata dal tedio delle pratiche religiose in una quotidianità sentita come priva di senso e vissuta nell’attesa di una sfuggente rivelazione divina.»

Mazzoni: «Si trattava, quindi, di una forma di disperazione? »

Salvini: «Oggigiorno potremmo definirla così. L’uomo comune può provarla a tratti, come accade in quei momenti in cui ci si sente estranei a quello che si fa o si dice o quando ci si sente insoddisfatti, rassegnati o demotivati.»

Stecca: «Crede che alcune persone provino a reagire?»

Salvini: «Sì. Alcuni riescono a sovrastare i sentimenti di disperazione in modo reattivo, impegnandosi in modo ipercinetico sia nella sfera affettiva che in quella sociale/lavorativa. In molti casi ci riescono facendo uso di sostanze dopaminergiche.»

Stecca: «Al giorno d’oggi i modelli di vita imposti dalla società sembrano aver convertito la resa e la disperazione nell’estremo opposto, negandola e compensandola. Che ne pensa?»

Salvini: «A differenza di quanto accade con il disturbo bipolare, l’adeguamento sociale allo spirito dei tempi lascia trapelare ben poco. In epoche passate questi sentimenti di disperazione –che la società assertiva e competitiva di oggi non ammette e fa di tutto per trasformare nel contrario– hanno avuto diversi nomi (ad esempio, nichilismo psicologico, horror vacui, spleen o angoscia esistenziale) e venivano attribuiti ad uno stato che potremmo definire ‘‘di insufficienza esistenziale’’.»

Stecca: «Pare di trovarsi davanti ad un quadro di sofferenza psicologica ignorato dal positivismo classificatorio della psicopatologia e dalle sue più recenti versioni medicalizzate. In altre parole, siamo di fronte ad una condizione psicologica che oggi, in modo più che sbrigativo, viene definita come disturbo depressivo

Salvini: «Se si trattasse solamente di uno stato depressivo endogeno, causato dalla cattiva modulazione di determinati neurotrasmettitori, sarebbe opportuno, ed altrettanto efficace, il ricorso ai farmaci antidepressivi o agli stabilizzatori dell’umore, per citarne alcuni, ma, ad ogni modo, il disagio esistenziale e la disperazione, in tutte le sue forme e manifestazioni, rimane.»

Mazzoni: «Quindi non è attraverso la categorizzazione diagnostica che lo psicoterapeuta accede alle molteplici varietà dei modi di essere e di sentire delle persone?»

Stecca: «Questo significa che il linguaggio dello psicoterapeuta, per poter essere aderente al suo sentire, deve rimanere legato a quello che le persone raccontano sul loro modo di percepire se stessi e il mondo. Non interessa solo cosa raccontano, ma anche come e perché lo fanno.»

Salvini: «Altrimenti lo psicoterapeuta farebbe un altro mestiere; eviterebbe gli enunciati diagnostici generalizzati. Se determinate professioni della psiche si occupano delle somiglianze tra gli esseri umani, lo psicoterapeuta, invece, si interessa alle differenze. Per questo motivo i diversi modi di fare e di pensare devono essere configurati attraverso il linguaggio.»

Mazzoni: «E questo che comporta?»

Salvini: «Il terapeuta è costretto ad affrontare un passaggio obbligato (quindi, senza scorciatoie) necessario per poter cambiare il modo di vivere delle persone che si rivolgono a lui/lei; e questo comporta la ricostruzione di un sistema di credenze e di significati. Molto spesso lo psicoterapeuta lavora più come antropologo che come sanitario. I sentimenti di disperazione devono essere riconosciuti come tali ed essere inseriti nel sistema di costrutti e modi di sentire di una persona. Solo in questo modo acquistano un senso. Altrimenti, se visti dall’esterno, verranno semplicemente catalogati come ‘‘depressione’’.»

Stecca: «Come Lei dice, lo psicoterapeuta è un esperto di particolari campi semantici e narrativi con cui le persone vivono e ricostruiscono l’esperienza di se stessi…»

Salvini: «Si tratta di un’esigenza tecnica, necessaria a ricostruire la configurazione semantica di un’esperienza psicologica personale, che è, al contempo, un’esperienza culturale e sociale, come lo è la disperazione nelle sue molteplici manifestazioni. Il primo passo che muove il terapeuta è quello di  far riscrivere il testo di un’esperienza generativa, in modo da favorire un diverso modo di interpretare se stessi e la vita. In questo senso, lavorare con le disperazioni dei pazienti non è un lavoro letterario o medico, ma si trasforma in un impegno filosofico-esistenziale.»

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